L’italia detiene molti primati, per alcuni dei quali fortunatamente andarne fieri. Tra questi, è senz’altro una buona notizia essere tra i Paesi tra i più longevi al mondo, ma “non è tutto oro quel che luccica”. A smorzare un po’ l’entusiasmo e, ci auguriamo, anche a smuovere qualche coscienza (soprattutto tra le Istituzioni), il Rapporto “Pensions at a Glance 2021” pubblicato l’8 dicembre appena trascorso dall’OECD (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico). I dati principali del Rapporto sono riportati in un articolo del Sole 24 Ore – “Ocse, pensioni in Italia: le uscite passeranno da soli 61,8 anni a 71”. Basterebbe solo il titolo per comprendere quello che è lo scenario del nostro Paese.
Analizzando i sistemi pensionistici nei paesi dell’OCSE e del G20, tra cui quindi quello italiano, gli elementi che ci riguardano sono più o meno sempre gli stessi: una vita che si allunga, con conseguente invecchiamento della popolazione e un rapporto tra lavoratori e pensionati che mette a dura prova la tenuta del sistema previdenziale e l’elevata spesa pubblica, con un’incidenza sul PIL pari al 15,4% nel 2019 (la seconda dell’area OCSE). Ciliegina sulla torta, le diverse “scorciatoie” alla Riforma Fornero, che consentendo un’uscita molto anticipata dal lavoro di certo non contribuiscono alla sostenibilità dell’ordinamento pensionistico.
Divario di oltre 9 anni per i pensionati del futuro rispetto a quelli attuali
Secondo le stime, nel 2050 ci saranno 74 persone con un’età superiore ai 65 anni ogni 100 persone con un’età compresa tra i 20 e i 64 anni, rapporto tra i più elevati tra i Paesi considerati. E’ evidente, quindi, che l’età di pensionamento dovrà essere spostata sempre più in là, come è altrettanto chiaro che a dover fare i conti con questa situazione siano i giovani.
Nel mentre, però, si discute ancora su come superare Quota 100 con altre complicate combinazioni (Quota 102,103 ecc.), che di certo continueranno a riguardare solo chi andrà in pensione nel brevissimo termine, ma non di certo chi deve ancora entrare nel mondo del lavoro, per i quali la soglia anagrafica media si prospetta come anticipato di ben 71 anni.
Se nel 2020, soprattutto per il susseguirsi di una serie di vie di pensionamento anticipato rispetto alla Riforma Fornero, l’età media di uscita dal lavoro è stata di 61,8 anni, a fronte di una media OCSE di 63,2, significa che il divario tra pensionati di oggi e future generazioni supera i 9 anni.
Altro fattore imprescindibile è il tasso di sostituzione delle pensioni, ossia la percentuale dell’ultimo reddito percepito in attività coperto dalla pensione pubblica. Per i lavoratori dipendenti si prospetta migliore, dovendo corrispondere un’aliquota contributiva più elevata rispetto ai lavoratori autonomi, ossia pari all’80% per un lavoratore con un reddito medio e stabile. Per gli autonomi, invece, si stima sia anche del 30% inferiore. Ma in entrambi i casi, a condizione che si lavori fino a tarda età.
Sul punto, quindi, si apre un ulteriore scenario. Il sistema sarà mai pronto ad assicurare il posto di lavoro ad un lavoratore più che settantenne?
La previdenza integrativa o meglio “sostitutiva”: ecco la soluzione
Se l’età per andare in pensione sarà sempre più elevata, è probabile che molti lavoratori si ritroveranno da un lato senza lavoro, con un’evidente difficoltà ad essere impiegati nuovamente e dall’altro senza avere ancora i requisiti per la pensione.
Di conseguenza, l’esigenza sarà quella di poter contare su di un reddito ponte che accompagni fino al pensionamento previsto.
Il miglior modo per assicurarlo è agire il prima possibile risparmiando con la previdenza integrativa. Il fondo pensione, infatti, costituisce lo strumento più vantaggioso sotto ogni profilo, in primis quello fiscale, nonché mirato a tutelare il proprio tenore di vita una volta terminata l’attività lavorativa o in prossimità, appunto, del pensionamento.
In questo contesto sarebbe sempre più corretto parlare di pensione sostitutiva piuttosto che integrativa. In effetti, il reddito accantonato per integrare la pensione pubblica, quindi a vita intera, potrebbe essere in alcuni casi non del tutto sufficiente; mentre in un’ottica di pensione sostitutiva sarebbe più adeguato al sostentamento della famiglia.
Ma come?
Grazie ad una prestazione ad hoc del fondo pensione: la RITA- rendita integrativa temporanea anticipata. Quanto accumulato nel fondo pensione viene erogato fino a 5 anni prima della pensione di vecchiaia dal momento della cessazione dell’attività lavorativa e se l’inoccupazione si prolunga da 24 mesi, l’anticipo è addirittura di 10 anni. Fino al momento in cui viene raggiunta l’età anagrafica necessaria per il pensionamento, quindi, si può contare su questa preziosa entrata economica, per di più soggetta ad aliquota agevolata del 15%/9% rispetto a quelle IRPEF, al pari della pensione integrativa.
Se per esempio, in 35 anni sono stati accumulati €150.000 euro nel fondo pensione, di cui in via semplificata:
- 50.000 euro sono dati dai rendimenti (in buon comparto azionario)
- il 27% dei restanti 100.000 euro è stato finanziato dallo Stato grazie al beneficio della deducibilità fiscale (27.000 euro)
- 73.000€ sono quindi i versamenti effettivi (circa 2.000 euro all’anno)
Nel momento in cui cessa l’attività lavorativa, si può contare su una rendita di almeno 27.300 euro netti all’anno (30.000 euro annui lordi) per i cinque che mancano alla pensione.
Sarà sempre più strategico in questi contesti di riforme previdenziali che innalzano l’età di pensionamento agevolare la formazione del risparmio finalizzato ad una pensione sostitutiva se vogliamo garantire ai cittadini italiani un futuro sostenibile.
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